L’uomo e il suo divenire Secondo il Vêdânta

Premessa

Nelle nostre opere precedenti abbiamo a più riprese annunciato l’intenzione di pubblicare una serie di studi nei quali ci sarebbe stato possibile, secondo i casi, o esporre direttamente taluni aspetti delle dottrine metafisiche dell’Oriente, o adattare queste stesse dottrine nel modo che ci fosse apparso più intelligibile e proficuo, sempre però restando rigorosamente fedeli al loro spirito. Il presente lavoro costituisce il primo di questi studi: in esso, per ragioni che abbiamo già avuto occasione di spiegare, assumiamo come punto di vista centrale quello delle dottrine indù, e specialmente del Vêdânta, che è il ramo più puramente metafisico di tali dottrine; va però chiarito che ciò non ci impedirà di fare, ogni qual volta ci parrà opportuno, confronti e paragoni con altre teorie, qualunque ne sia la provenienza, e, in particolare, che faremo anche ricorso agli insegnamenti degli altri rami ortodossi della dottrina indù, nella misura in cui vengono, su certi punti, a precisare e a completare quelli del Vêdânta. Non sarebbe logico rimproverarci questo modo di procedere, dato che le nostre intenzioni non sono affatto quelle di uno storico: teniamo a ribadire ancora espressamente, a questo proposito, che vogliamo fare opera di comprensione, non di erudizione, e che ciò che esclusivamente ci interessa è la verità delle idee. Se dunque abbiamo ritenuto opportuno fornire qui riferimenti precisi, è per motivi che non hanno niente a che vedere con le preoccupazioni particolari degli orientalisti; con ciò abbiamo soltanto voluto dimostrare che non inventiamo nulla e che le idee da noi esposte hanno davvero un’origine tradizionale, e al tempo stesso fornire il mezzo, a coloro che ne fossero capaci, di riferirsi ai testi, nei quali potranno trovare indicazioni complementari, poiché va da sé che non abbiamo la pretesa di offrire una trattazione esauriente, nemmeno di un punto determinato della dottrina.
Una trattazione complessiva, del resto, è assolutamente impossibile: sarebbe un lavoro interminabile, oppure richiederebbe una formulazione così sintetica da risultare perfettamente incomprensibile a mentalità occidentali. Inoltre, sarebbe difficilissimo evitare, in un’opera di questo genere, una parvenza di sistematizzazione che è incompatibile con i caratteri essenziali delle dottrine metafisiche; per quanto solo una parvenza, essa sarebbe lo stesso, inevitabilmente, causa di errori estremamente gravi, tanto più che gli Occidentali, per le loro abitudini mentali, sono fin troppo inclini a scorgere «sistemi» anche là dove non ve ne possono essere. È importante non dare il minimo appiglio a queste assimilazioni ingiustificate cui sono usi gli orientalisti; e meglio sarebbe astenersi dall’esporre una dottrina piuttosto che contribuire a snaturarla, fosse pure per semplice inavvedutezza. Fortunatamente, però, esiste un mezzo per sfuggire al suddetto inconveniente: basta trattare, in una stessa esposizione, soltanto un punto o un aspetto più o meno definito della dottrina, salvo prendere poi altri punti per farne l’oggetto di altrettanti studi distinti. D’altronde, questi lavori non rischieranno mai di diventare ciò che gli eruditi e gli «specialisti» chiamano «monografie», poiché i principi fondamentali non saranno mai perduti di vista e, quanto ai punti secondari, essi vi dovranno comparire soltanto come applicazioni dirette o indirette di questi principi da cui tutto deriva: nell’ordine metafisico, che si riferisce alla sfera dell’Universale, non può esserci il minimo posto per la «specializzazione».
È facile ora comprendere perché facciamo oggetto del presente studio solamente quanto concerne la natura e la costituzione dell’essere umano: per rendere intelligibile quel che abbiamo da dire al riguardo dovremo necessariamente affrontare altri punti che, a prima vista, possono sembrare estranei all’argomento, mentre è sempre in rapporto a esso che li prenderemo in esame. I principi hanno, di per sé, una portata che supera immensamente ogni loro applicazione possibile; ma non per questo è meno legittimo esporli, per quanto è possibile, relativamente a tale o talaltra applicazione, anzi, è un procedimento che, sotto vari punti di vista, offre molti vantaggi. D’altra parte, una questione può dirsi trattata metafisicamente solo nella misura in cui viene ricollegata ai principi; non bisogna mai dimenticarlo, se si vuol fare della vera metafisica e non della «pseudo-metafisica» alla maniera dei filosofi europei.
Se abbiamo deciso di esporre in primo luogo le questioni relative all’essere umano, non è perché abbiano, dal punto di vista puramente metafisico, un’importanza eccezionale, poiché, essendo questo punto di vista essenzialmente libero da tutte le contingenze, il caso dell’uomo non vi appare mai come un caso privilegiato; cominciamo da esse perché tali questioni si sono già presentate durante i nostri lavori precedenti, che richiedevano, sotto questo riguardo, un supplemento che si troverà nella presente opera. L’ordine che adotteremo per gli studi che seguiranno dipenderà ugualmente dalle circostanze e sarà, in larga misura, determinato da considerazioni di opportunità; abbiamo reputato utile dirlo sin d’ora, affinché nessuno sia tentato di scorgervi una specie di ordine gerarchico quanto all’importanza degli argomenti o alla loro dipendenza; significherebbe attribuirci un’intenzione che non abbiamo, ma sappiamo fin troppo bene con quanta facilità si producano equivoci di questo genere e perciò ci sforzeremo di prevenirli ogni qual volta sarà nelle nostre possibilità.
C’è ancora un punto che ci sta troppo a cuore per passarlo sotto silenzio in queste osservazioni preliminari, un punto su cui, tuttavia, pensavamo in un primo momento di esserci sufficientemente spiegati in precedenti occasioni; ci siamo invece accorti che non tutti l’avevano ben capito; occorre dunque insistervi di più. Il punto è il seguente: la conoscenza vera, a cui esclusivamente miriamo, non ha che pochissimi rapporti, posto che ne abbia, con il sapere «profano»; gli studi che lo compongono non sono in alcuna misura né ad alcun titolo una preparazione, sia pure lontana, per accostarsi alla «Scienza sacra», anzi, talvolta sono al contrario un ostacolo, data la deformazione mentale, spesso irrimediabile, che è la conseguenza più comune di una certa educazione. Per dottrine come quelle che esponiamo, uno studio cominciato «dall’esterno» non può essere di alcun profitto; l’abbiamo già detto, non si tratta di storia e nemmeno di filologia o di letteratura; e aggiungiamo ancora, a rischio di ripeterci in un modo che alcuni troveranno forse fastidioso, che non si tratta neppure di filosofia. Tutte queste cose, infatti, fanno ugualmente parte di quel sapere che chiamiamo «profano» o «esteriore», non per disprezzo, ma perché in realtà non è che questo; riteniamo di non doverci preoccupare di piacere agli uni o dispiacere agli altri, ma solo di dire le cose come sono e di attribuire a ogni cosa il nome e il posto che normalmente le convengono. La «Scienza sacra» è stata odiosamente parodiata, nell’Occidente moderno, da impostori più o meno coscienti, ma non per questo bisogna astenersi dal parlarne e dare l’impressione, se non di negarla, per lo meno d’ignorarla; al contrario, noi affermiamo apertamente, non soltanto che esiste, ma che abbiamo l’intenzione di occuparcene esclusivamente. Coloro che vorranno riferirsi a quello che abbiamo detto altrove sulle stravaganze degli occultisti e dei teosofisti comprenderanno immediatamente che ciò di cui si tratta è tutt’altra cosa e che anche queste persone non sono ai nostri occhi che semplici «profani», anzi, dei «profani» che aggravano singolarmente la loro posizione cercando di farsi passare per quello che non sono affatto, e questa, d’altro canto, è una delle ragioni principali per cui giudichiamo necessario mostrare l’inanità delle loro pretese dottrine ogni qual volta se ne presenti l’occasione.
Quello che abbiamo detto deve anche far capire che le dottrine di cui ci proponiamo di parlare eludono, per la loro stessa natura, ogni tentativo di «volgarizzazione»; sarebbe ridicolo voler «mettere alla portata di tutti», come tanto spesso si dice nella nostra epoca, concezioni che non possono essere destinate che a una élite, e cercare di farlo sarebbe il modo più sicuro per deformarle. Abbiamo altrove spiegato quello che intendiamo per élite intellettuale, quale sarà la sua funzione se riuscirà un giorno a costituirsi in Occidente, e come lo studio reale e approfondito delle dottrine orientali sia indispensabile per prepararne la formazione. In vista di un simile lavoro, i cui risultati si faranno indubbiamente sentire solo a lunga scadenza, crediamo di dover esporre certe idee per coloro che sono capaci di assimilarle, senza mai fare subire a esse alcuna di quelle modificazioni e semplificazioni, tipiche dei «volgarizzatori», che si opporrebbero direttamente allo scopo che ci proponiamo. Infatti, non è la dottrina che deve abbassarsi e restringersi per il limitato intelletto del volgo; sono invece quelli che lo possono che devono elevarsi alla comprensione della dottrina nella sua purezza integrale, ed è solo in tal modo che può formarsi una vera élite intellettuale. Fra quelli che ricevono uno stesso insegnamento, ognuno lo capisce e l’assimila più o meno completamente, più o meno profondamente, secondo le proprie capacità intellettuali: così si opera naturalmente la selezione senza la quale non può esistere una vera gerarchia. Abbiamo già detto queste cose, ma era necessario ricordarle prima di intraprendere una esposizione propriamente dottrinale; quanto più esse sono estranee alla mentalità occidentale attuale, tanto meno è inutile ripeterle insistentemente.

Il Teosofismo

Premessa
Teosofia e teosofismo

Dobbiamo innanzi tutto giustificare il termine inusuale che costituisce il titolo del presente studio: perché “teosofismo” e non “teosofia”? Dato che, per quanto ci riguarda, questi due termini designano due cose parecchio differenti, occorre dissipare, persino a costo di un neologismo o di ciò che può sembrare tale, la confusione a cui induce naturalmente la similitudine dei due termini.
Ciò, dal nostro punto di vista, è tanto più importante in quanto certe persone hanno, al contrario, tutto l’interesse a mantenere tale confusione, per far credere ad un loro collegamento con una tradizione, alla quale in realtà essi non possono legittimamente ricollegarsi; cosa del resto valida per tanti altri.
In effetti, molto tempo prima della creazione della Società cosiddetta Teosofica, il termine teosofia era una, denominazione comune a dottrine alquanto diverse, ma facenti tutte parte di una stessa tipologia o almeno derivanti dallo stesso complesso di indirizzi; è opportuno dunque soffermarsi sul significato che tale termine ha storicamente.
Senza cercare di approfondire, qui, la natura di tali dottrine, possiamo dire che esse hanno come elementi comuni e fondamentali delle concezioni più o meno strettamente esoteriche, di ispirazione religiosa o almeno mistica, benché, senza dubbio, di un misticismo un po’ speciale, e si richiamano ad una tradizione propriamente occidentale la cui base è sempre, sotto una forma o l’altra, il Cristianesimo.
Tali sono, per esempio, le dottrine di Jacob Böhme, di Gichtel, di William. Law, di Jane Lead, di Swedenborg, di Louis-Claude de Saint-Martin, di Eckartshausen; senza con questo pretendere di offrire un elenco completo, ma limitandoci a citare qualche personaggio fra i più conosciuti.
Ora, l’organizzazione che si chiama attualmente “Società Teosofica”, di cui qui intendiamo occuparci esclusivamente, non dipende da nessuna scuola che si ricolleghi, neanche indirettamente, ad alcuna di tali dottrine; la sua fondatrice, M.me Blavatsky, ha solo potuto avere una conoscenza più o meno completa degli scritti di alcuni teosofi, in particolare di Jacob Böhme, e da qui attingere alcune delle idee che inserirà nelle sue opere, insieme a moltissimi altri elementi della più diversa provenienza; ma questo è tutto quello che è possibile ammettere nei riguardi di un presunto collegamento.
In generale, le teorie più o meno coerenti che sono state enunciate e sostenute dai capi della Società Teosofica non hanno alcuno dei caratteri che noi abbiamo indicati, a parte il preteso esoterismo: esse si presentano, d’altronde falsamente, come aventi un’origine orientale e se si è pensato bene, dopo un certo tempo, di ricollegarle ad uno pseudo-cristianesimo di una natura alquanto particolare, non è men vero che la loro primitiva tendenza era, al contrario, palesemente anticristiana.
“Nostro scopo diceva allora M.me Blavatsky non è di restaurare l’Induismo, ma di cancellare il Cristianesimo dalla faccia della terra” 1.
Le cose sono così cambiate, da allora, come le apparenze potrebbero far credere? Il tutto induce, come minimo, a diffidare, dato che la grande propagandista del nuovo “Cristianesimo Esoterico” è M.me Besant, la stessa che scrisse a suo tempo che occorreva “innanzi tutto combattere Roma ed i suoi preti, lottare ovunque contro il Cristianesimo e scacciare Dio dai Cieli” 2.
Senza dubbio, è possibile che la dottrina della Società Teosofica e le opinioni della sua attuale presidentessa si siano “evolute”, ma è possibile anche che il suo neo-cristianesimo non sia altro che una copertura, poiché quando si tratta di simili ambienti bisogna aspettarsi di tutto.
Riteniamo che il presente studio dimostrerà a sufficienza quanto si avrebbe torto a rimettersi alla buona fede di persone che dirigono o ispirano movimenti come quello di cui si tratta.
Comunque, a parte tale, considerazione, possiamo fin d’ora dichiarare nettamente che fra la dottrina della Società Teosofica, o almeno fra quello che viene offerto come tale, e la Teosofia, nel vero significato del termine, non vi è assolutamente alcuna filiazione, neppure solamente ideale. Si devono dunque rigettare come chimeriche le affermazioni che tendono a presentare questa Società come la continuatrice di altre associazioni tipo la “Società di Filadelfia”, che è esistita a Londra verso la fine del XVII secolo 3 e alla quale si ritiene appartenesse Isaac Newton; o la “Confraternita degli Amici di Dio” che si dice sia stata istituita in Germania, nel XIV secolo, dal mistico Jean Tauler, nel quale alcuni hanno voluto vedere, non sappiamo bene perché, un precursore di Lutero 4. Tali affermazioni sono forse ancora meno fondate, e non è dir poco, di quelle con le quali i teosofisti si sforzano di rifarsi ai neoplatonici 5, con il pretesto che M.me Blavatsky ha effettivamente adottato alcune frammentarie teorie di tali filosofi, senza per altro averle assimilate veramente.
Le dottrine, in realtà tutte moderne, che propugna la Società Teosofica sono talmente differenti, sotto quasi tutti gli aspetti, da quelle a cui si dà legittimamente il nome di Teosofia, che si potrebbero confondere le une con le altre solo per malafede o per ignoranza: malafede da parte dei capi della Società, ignoranza della maggior parte dei seguaci ed anche, bisogna dirlo, di taluni dei loro avversari che, poco sufficientemente informati, commettono il grave errore di prendere sul serio le loro asserzioni e di credere, per esempio, che essi rappresentino l’autentica. tradizione orientale, allorché invece non ne rappresentano alcuna.
La Società Teosofica, come si vedrà, deve la sua denominazione a delle circostanze del tutto fortuite, senza le quali essa ne avrebbe avuto un’altra del tutto diversa, di modo che i suoi membri non sono affatto dei Teosofi, ma sono, al massimo, dei teosofisti.
Del resto, la distinzione fra questi due termini, “Teosofi” e “Teosofisti”, è adottata correntemente in inglese, ove è il termine “Teosofism” ad essere usato per indicare la dottrina di questa Società; noi riteniamo che l’uso di tale termine sia così importante da doverlo mantenere anche in francese (e in italiano n.d.t. ), malgrado ciò che può esservi di strano; è questo il motivo per cui abbiamo ritenuto di dover innanzi tutto chiarire le ragioni per le quali non si tratta solo di una semplice questione di termini.
Abbiamo parlato come se vi fosse veramente una dottrina teosofista ma, a dire il vero, se si considera il termine dottrina nel suo significato più vero o se si vuole semplicemente indicare qualcosa di valido e di ben definito, bisogna convenire che essa non ne ha alcuno.
Ciò che i teosofisti presentano come loro dottrina appare, ad un esame appena serio, come qualcosa piena di contraddizioni; per di più da un autore all’altro, e talvolta presso lo stesso autore, vi sono delle considerevoli variazioni, anche su dei punti che sono riconosciuti come i più importanti. Si possono soprattutto distinguere, sotto questo aspetto, due periodi principali, corrispondenti l’uno alla direzione di M.me Blavatsky e l’altro a quella di M.me Besant; è vero che i teosofisti moderni cercano frequentemente di dissimulare le contraddizioni, interpretando a loro modo il pensiero della loro fondatrice e pretendendo che questo sia stato mal compreso dall’inizio, ma il disaccordo non è per questo meno reale.
Si capirà senza fatica che lo studio di tali teorie così inconsistenti non può, quasi mai, essere separato dalla storia della Società Teosofica ed è per questo che noi non abbiamo ritenuto di sviluppare questo studio in due parti distinte, l’una storica e l’altra dottrinale, come sarebbe stato naturale in tutt’altre circostanze.

Note
l. Dichiarazione fatta ad Alfred Alexander e pubblicata in The Medium and Daybreak, Londra, genn. 1893, p. 23.
2. Discorso di chiusura al Congresso dei Liberi Pensatori tenutosi a Bruxelles nel sett. 1880.
3. La Clef de la Tbéosophie, di H.P. Blavatsky, p. 25 della traduzione francese di H. de Neufville. Per le citazioni contenute in questo studio ci rifaremo sempre a questa traduzione.
4. Modern World Movements, del dr. J.D. Buck, in Life and Action, Chicago, maggio-giugno 1913.
5. La Clef de la Tbéosophie, pp. 4-13.

Gli stati molteplici dell'essere

Premessa

Nel nostro ultimo studio, Il simbolismo della croce, abbiamo esposto, basandoci sui dati forniti dalle diverse dottrine tradizionali, una rappresentazione geometrica dell’essere fondata interamente sulla teoria metafisica degli stati molteplici. Il presente volume ne sarà, sotto questo aspetto, quasi un complemento, perché le indicazioni che abbiamo dato non bastano forse a far emergere del tutto la portata di questa teoria, che va considerata fondamentale; in quel caso ci dovemmo infatti limitare a quanto era più direttamente collegato allo scopo ben definito che ci eravamo proposti. Lasciando perciò da parte la già descritta rappresentazione simbolica, o perlomeno ricordandola in un certo senso solo incidentalmente quando vi sarà motivo di farvi riferimento, dedicheremo interamente questo nuovo lavoro a un più ampio sviluppo di tale teoria, esponendone sia e innanzitutto il principio stesso, sia alcune delle applicazioni, specie per quanto concerne l’essere considerato sotto l’aspetto umano.
Circa quest’ultimo punto, non sarà forse inutile ricordare fin d’ora che l’attenzione da noi prestata a considerazioni di tale ordine non implica affatto che lo stato umano occupi una posizione privilegiata nell’insieme dell’Esistenza universale, o sia metafisicamente contraddistinto, rispetto agli altri stati, dal possesso di una qualunque prerogativa. In realtà lo stato umano è soltanto uno stato di manifestazione come tutti gli altri, e fra un numero indefinito di altri; esso si trova, nella gerarchia dei gradi dell’Esistenza, nella posizione assegnatagli dalla sua stessa natura, cioè dal carattere limitante delle condizioni che lo definiscono, e questa posizione non gli conferisce né superiorità né inferiorità assolute. Se talvolta dobbiamo prendere in esame tale stato, è dunque unicamente perché esso acquista per noi, ma per noi soltanto, un’importanza speciale, essendo lo stato in cui di fatto ci troviamo; si tratta di un punto di vista del tutto relativo e contingente, quello degli individui come noi nel nostro attuale modo di manifestazione. Perciò, in particolare, quando parliamo di stati superiori e inferiori dobbiamo operare tale ripartizione gerarchica sempre in relazione allo stato umano preso come termine di paragone, poiché nessun altro stato è direttamente sperimentabile da noi in quanto individui; e non si deve dimenticare che ogni espressione, essendo racchiusa in una forma, si effettua necessariamente in modo individuale, sicché, di qualunque cosa vogliamo parlare, anche delle verità di ordine puramente metafisico, possiamo farlo solo scendendo a un ordine completamente diverso, essenzialmente relativo e limitato, che consenta di tradurle nel linguaggio proprio delle individualità umane. Non è difficile comprendere tutte le precauzioni e le riserve imposte dall’inevitabile imperfezione di questo linguaggio, così manifestamente inadeguato a ciò che deve esprimere in tale caso; la sproporzione è evidente, e del resto si può dire altrettanto di ogni rappresentazione formale, qualunque sia, comprese le rappresentazioni propriamente simboliche, che pure sono incomparabilmente meno limitate del linguaggio comune, e di conseguenza più adatte a trasmettere verità trascendenti donde il loro impiego costante in ogni insegnamento che possegga un carattere davvero «iniziatico» e tradizionale. (1) Perciò, come abbiamo già ripetutamente sottolineato, è opportuno, per non alterare la verità con un’esposizione parziale, restrittiva o sistematica, tenere sempre conto dell’inesprimibile, ossia di ciò che non può essere racchiuso in alcuna forma e che, metafisicamente, è in realtà quel che più conta, anzi, potremmo dire tutto l’essenziale.
Ora, se si vuole ricollegare, sempre considerando lo stato umano, il punto di vista individuale al punto di vista metafisico, come di norma è necessario fare quando si tratta di «scienza sacra» e non soltanto di sapere «profano», diremo questo: la realizzazione dell’essere totale può essere compiuta a partire da qualunque stato preso come base e punto di partenza, proprio perché tutti i modi di esistenza contingenti si equivalgono di fronte all’Assoluto; può dunque essere compiuta a partire dallo stato umano come pure da ogni altro, e persino, l’abbiamo già affermato altrove, da ogni modalità di questo stato, il che equivale a dire che essa, in particolare, è possibile per l’uomo corporeo e terreno qualunque cosa ne possano pensare gli Occidentali, che sono tratti in errore, circa l’importanza che occorre attribuire alla «corporeità», dalla straordinaria insufficienza delle loro concezioni relative alla costituzione dell’essere umano. (2) Poiché questo è lo stato in cui ci troviamo attualmente, da qui dobbiamo in effetti partire se ci proponiamo di raggiungere la realizzazione metafisica, di qualunque grado sia, e qui si trova la ragione essenziale per cui dobbiamo prendere in esame in particolare questo stato; avendo peraltro già sviluppato tali considerazioni in precedenza, non vi insisteremo oltre, tanto più che il presente saggio consentirà di comprenderle ancora meglio.(3)
D’altra parte, per fugare ogni possibile confusione, dobbiamo ricordare fin d’ora che, quando parliamo di stati molteplici dell’essere, ci riferiamo non a una semplice molteplicità numerica o anche più generalmente quantitativa, bensì a una molteplicità di ordine «trascendentale» o veramente universale, applicabile a tutti gli ambiti che costituiscono i differenti «mondi» o gradi dell’Esistenza, considerati separatamente o nel loro insieme, dunque al di fuori e al di là dell’ambito particolare del numero, e perfino della quantità in tutte le sue forme. Infatti la quantità, e a maggior ragione il numero, che ne rappresenta solo una forma, cioè la quantità discontinua, è soltanto una delle condizioni che determinano alcuni stati, tra i quali il nostro; essa dunque non può venire attribuita ad altri stati, e ancor meno all’insieme degli stati, il quale sfugge evidentemente a una determinazione di questo genere. Perciò, quando a tale riguardo parliamo di una moltitudine indefinita, occorre sempre tenere presente che l’indefinità in questione si pone al di là di ogni numero, e anche di tutto ciò che soggiace più o meno direttamente alla quantità, come l’indefinità spaziale o temporale, la quale rientra anch’essa fra le condizioni proprie al nostro mondo.(4)
Si impone ora un’ulteriore osservazione, riguardo al nostro impiego della parola «essere», la quale a rigor di termini non è più applicabile in senso proprio quando si tratta di determinati stati di non-manifestazione, dei quali parleremo più avanti, che sono posti al di là del grado dell’Essere puro. Siamo tuttavia costretti, per la conformazione stessa del linguaggio umano, a mantenere anche in questo caso tale termine, in mancanza di un altro più adeguato, ma gli attribuiamo allora un significato puramente analogico e simbolico, altrimenti ci sarebbe del tutto impossibile parlare dell’argomento in questione; ecco dunque un esempio chiarissimo delle insufficienze linguistiche cui si alludeva sopra. Potremo così, come abbiamo già fatto altrove, continuare a parlare dell’essere totale come manifestato in alcuni dei suoi stati e allo stesso tempo non-manifestato in altri, senza che ciò implichi in alcun modo l’obbligo, da parte nostra, di limitarci, per questi ultimi, all’esame di quanto corrisponde al grado che è proprio dell’Essere. (5)
A tale proposito ricorderemo che il fermarsi all’Essere senza nulla porre al di là di esso, quasi fosse in qualche modo il Principio supremo, il più universale di tutti, è uno dei tratti caratteristici di certe concezioni occidentali dell’antichità e del Medioevo, le quali, pur contenendo senza dubbio una componente metafisica non più rintracciabile nelle concezioni moderne, restano assai incomplete sotto questo aspetto, anche perché si presentano come teorie elaborate per se stesse, anziché in vista di una realizzazione effettiva corrispondente. Questo certo non significa che allora in Occidente non vi fosse nient’altro; parliamo soltanto di ciò che è generalmente noto, e di cui taluni, pur compiendo lodevoli sforzi per reagire contro la negazione moderna, tendono a esagerare il valore e la portata, non rendendosi conto che si tratta sempre di punti di vista tutto sommato esterni, e che nelle civiltà in cui si è creata, come in questo caso, una sorta di frattura tra due ordini di insegnamento che si sovrappongono senza mai contrapporsi, l’«essoterismo» richiede l’«esoterismo» come suo complemento necessario. Quando l’«esoterismo» è misconosciuto, la civiltà, non più connessa direttamente ai princìpi superiori da alcun legame effettivo, non tarda a perdere ogni carattere tradizionale, poiché gli elementi di questo ordine che ancora vi sussistono sono paragonabili a un corpo abbandonato dallo spirito e, di conseguenza, sono ormai impotenti a costituire qualcosa di più di una sorta di formalismo vuoto; si tratta appunto di ciò che è accaduto al mondo occidentale moderno. (6)
Dopo aver fornito queste poche spiegazioni, pensiamo di poter affrontare il nostro argomento anche senza dilungarci ulteriormente in premesse da cui ci dispensano in gran parte le molte considerazioni già da noi svolte altrove. Non ci è infatti possibile tornare indefinitamente su ciò che è stato detto nelle nostre opere precedenti, sarebbe soltanto una perdita di tempo; e se di fatto alcune ripetizioni sono inevitabili, dobbiamo sforzarci di ridurle a quanto è strettamente indispensabile per la comprensione di ciò che ora ci proponiamo di esporre, salvo rimandare il lettore, ogni volta che sarà necessario, ai diversi passi di altri nostri lavori, dove potrà trovare indicazioni complementari o più ampi sviluppi dei temi che ci troveremo qui ad affrontare di nuovo. La principale difficoltà di questa esposizione è rappresentata dal fatto che tali questioni sono tutte legate più o meno strettamente fra loro, e se è importante mostrarne i nessi quanto più spesso possibile, non è meno importante evitare ogni parvenza di «sistematicità», cioè di una limitazione incompatibile con la natura stessa della dottrina metafisica, che deve al contrario aprire, a chi è capace di intenderla e di «assentirla», possibilità di concezione non soltanto indefinite, ma, possiamo dirlo senza abusare delle parole, realmente infinite come la stessa Verità totale.

Note
l. A tale proposito vogliamo far notare, per inciso, che la filosofia non ricorre mai ad alcun simbolismo, e ciò basterebbe da solo a dimostrare il carattere esclusivamente «profano» e del tutto esteriore di questo particolare punto di vista e della forma di pensiero cui esso corrisponde.
2. Si veda L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, Bossard, Paris, 1925, cap. XXIII [trad. it. L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, Adelphi, Milano, 1992].
3. Si veda Le Symbolisme de la Croix, Éditions Véga, Paris, 1931, capp. XXVIXXVIII [trad. it. Il simbolismo della croce, Rusconi, Milano, 1973].
4. Ibid., cap. XV.
5. Ibid., cap. I.
6. Si vedano Orient et Occident, Payot, Paris, 1924 [trad. it. Oriente e Occidente, Edizioni Studi Tradizionali, Torino, 1965] e La Crise du monde moderne, Bossard, Paris, 1927 [trad. it. La crisi del mondo moderno, Arktos, Carmagnola, 1991].

Il Simbolismo della Croce

Prefazione

In apertura dell’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta questo lavoro veniva da noi presentato come se dovesse costituire l’inizio di una serie di studi nei quali avremmo potuto. secondo i casi, vuoi esporre direttamente taluni aspetti delle dottrine metafisiche d’Oriente, vuoi adattare queste ultime nel modo che ci sarebbe parso più intelligibile e più profittevole, rimanendo tuttavia sempre rigorosamente fedeli al loro spirito. Riprendiamo qui questa serie di studi, dopo aver dovuto interromperla temporaneamente per redigere altri lavori resi necessari da certe considerazioni di opportunità, lavori nel quali ci siamo maggiormente calati nel campo delle applicazioni contingenti; ma anche in questo caso non abbiamo mai un solo istante perduto di vista i principi metafisici, i quali sono l’unico fondamento di ogni vero insegnamento tradizionale.
Nell’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta abbiamo fatto vedere come un essere come l’uomo venga guardato da una dottrina tradizionale e di tipo puramente metafisico, e ciò contenendoci – nel modo più rigoroso possibile – all’esposizione esatta e alla conforme interpretazione della dottrina, o, per lo meno, non esorbitandone se non per segnalare, quando se ne presentasse l’occasione, le concordanze di questa dottrina con altre forme tradizionali. In effetti, la nostra intenzione non è mai stata quella di rinchiuderci in modo esclusivo in una forma determinata – cosa che del resto sarebbe ben difficile quando si sia presa coscienza dell’unità di essenza che si cela sotto la diversità delle forme più o meno esteriori, forme che in definitiva altro non sono se non altrettanti rivestimenti di una sola e identica verità. Se per ragioni che abbiamo già spiegato in altra sede (1), abbiamo in linea di massima assunto quale punto di vista centrale quello delle dottrine indù, ciò non ha affatto la conseguenza di impedirci il ricorso, ogni volta che l’argomento si presti, ai modi di esprimersi delle altre tradizioni, a patto – beninteso – che si tratti sempre di tradizioni vere, tradizioni che possiamo dire regolari e ortodosse, intendendo tali parole nel senso da noi definito in altre occasioni (2). È questo che faremo qui, in particolare, più liberamente che non nel lavoro precedente, in quanto ci dedicheremo non più all’esposizione di un determinato ramo di dottrina, com’esso esiste in una certa civiltà, ma alla spiegazione di un simbolo che è precisamente fra quelli che sono comuni a quasi tutte le tradizioni, caratteristica che ai nostri occhi sta a indicare che si ricollegano direttamente alla grande Tradizione primordiale.
A tal proposito, dobbiamo insistere un poco su un punto che ha una particolare importanza al fine di dissipare molte confusioni sfortunatamente troppo frequenti nella nostra epoca; intendiamo parlare della differenza capitale esistente tra «sintesi» e «sincretismo». Il sincretismo consiste nell’accozzare dal di fuori elementi più o meno eterogenei, i quali, visti in tal modo, non possono mai essere veramente unificati; in definitiva, si tratta di una sorta di eclettismo, con tutto quel che quest’ultimo sempre comporta di frammentario e di incoerente. È dunque qualcosa di puramente esteriore e superficiale; gli elementi che vengono così raccolti da diverse parti e riuniti in tal modo artificialmente non hanno mai altro carattere se non quello di imprestiti, non passibili di un’effettiva integrazione in una dottrina degna di questo nome. Al contrario, la sintesi è sempre effettuata dal di dentro; con ciò intendiamo dire che essa consiste in modo proprio nel prendere in considerazione le cose nell’unità del loro stesso principio, nel vedere come esse derivino e dipendano da questo principio, nell’unirle in tal maniera – o meglio, nel prendere coscienza della loro unione reale, in virtù di un legame del tutto interiore, inerente a ciò che di più profondo c’è nella loro natura. Per applicare quanto stiamo dicendo all’argomento che ci occupa al presente, si può dire che si avrà sincretismo tutte le volte che ci si limiterà a trarre degli elementi da differenti forme tradizionali, per saldarli in certo qual modo esteriormente gli uni agli altri, senza sapere che in fondo non c’è che un’unica dottrina della quale tali forme sono semplicemente altrettante espressioni diverse, altrettanti adattamenti a condizioni mentali particolari, in relazione con circostanze determinate di tempo e di luogo. In un simile caso, da questo raffazzonamento non potrà uscire nulla di valevole; per adottare un paragone facilmente comprensibile, invece di un insieme organizzato, non risulterà che una raccolta informe di detriti inutilizzabili, in quanto ad essa mancherà quel che potrebbe dar loro un’unità analoga a quella di un essere vivente o di un edificio armonioso; ed è tipico del sincretismo, proprio a motivo della sua esteriorità, una simile unità il non poter realizzarla. Per converso, si avrà sintesi quando si partirà dall’unità stessa, e quando non la si perderà mai di vista attraverso la molteplicità delle sue manifestazioni, il che implica che si abbia raggiunto, al di fuori e al di là delle forme, la coscienza della verità principiale che di queste ultime si riveste per esprimersi e comunicarsi nella misura del possibile. In conseguenza di ciò, ci si potrà servire dell’una o dell’altra di tali forme secondo che si reputi vantaggioso il farlo, esattamente nello stesso modo in cui si può, per tradurre uno stesso pensiero, servirsi di lingue diverse col mutare delle circostanze, alfine di farsi capire dagli interlocutori differenti ai quali ci si rivolge; d’altro canto, è proprio questo a cui certe tradizioni danno simbolicamente il nome di «dono delle lingue». Si potrebbe dire che le concordanze tra tutte le forme tradizionali rappresentino reali «sinonimie»; è in questa luce che noi le guardiamo e ce ne serviamo, e così come la spiegazione di determinate cose può rivelarsi più facile in questa che non in quella lingua, una di tali forme potrà meglio adattarsi delle altre all’esposizione di certe verità e rendere queste ultime più facilmente intelligibili. È perciò perfettamente legittimo, in ciascun caso, fare uso della forma che appare più appropriata a quanto ci si propone; passare dall’una all’altra non presenta nessun inconveniente, a condizione che se ne conosca realmente l’equivalenza, cosa che non può avvenire se non partendo dal loro principio comune. Di conseguenza, in questo caso non vi è sincretismo; del resto, quest’ultimo non è che un punto di vista puramente «profano», incompatibile con la stessa nozione di «scienza sacra» a cui questi studi esclusivamente si riferiscono.
Abbiamo detto che la croce è un simbolo che, sotto forme diverse, si incontra quasi dappertutto, e a partire dalle epoche più remote; essa è quindi ben lungi dall’appartenere in proprio ed in modo esclusivo al Cristianesimo, come certuni potrebbero essere tentati di credere. Bisogna inoltre dire che il Cristianesimo, per lo meno nel suo aspetto esteriore e conosciuto generalmente, sembra aver un po’ perduto di vista il carattere simbolico della croce per considerarla soltanto più il segno di un fatto storico; in realtà, questi due punti di vista non si escludono affatto, ed, anzi, il secondo non è in certo qual senso se non una conseguenza del primo; sennonché questo modo di guardare alle cose è talmente estraneo alla gran maggioranza dei nostri contemporanei che è giocoforza arrestarci su di esso un istante, ad evitare qualche malinteso. Di fatto, troppo spesso si ha tendenza a pensare che l’accettazione di un senso simbolico debba comportare il rifiuto di un senso letterale o storico; un’opinione del genere non è che il prodotto dell’ignoranza della legge di corrispondenza che è il fondamento stesso di ogni simbolismo, e in virtù della quale qualsiasi cosa, poiché discende essenzialmente da un principio metafisico dal quale ricava tutta la sua realtà, traduce o esprime tale principio alla sua maniera e secondo il suo ordine di esistenza, per modo che da un ordine all’altro, tutte le cose si concatenano e corrispondono per concorrere all’armonia universale e totale, la quale è, nella molteplicità della manifestazione, in certo modo un riflesso della stessa unità principiale. È questa la ragione per cui le leggi di una sfera inferiore possono sempre essere assunte a simbolo delle realtà di un ordine superiore, nelle quali esse hanno la loro ragione profonda, che è insieme il loro principio e la loro fine; e possiamo ricordare – in questa occasione –, tanto più che proprio qui ne troveremo degli esempi, l’errore delle moderne interpretazioni «naturalistiche» delle antiche dottrine tradizionali, interpretazioni che rovesciano semplicemente la gerarchia dei rapporti tra i diversi ordini di realtà.
I simboli o i miti non hanno infatti mai avuto la funzione – come vorrebbe una teoria anche troppo diffusa ai giorni nostri – di rappresentare il movimento degli astri; la verità è che in essi si trovano spesso figure che si ispirano a quest’ultimo e che sono destinate ad esprimere analogicamente qualcosa di totalmente diverso, in quanto le leggi di tale movimento traducono fisicamente i principi metafisici dai quali dipendono. Quel che diciamo dei fenomeni astronomici si può dirlo del pari, e allo stesso titolo, di ogni altro genere di fenomeni naturali: questi fenomeni, in quanto derivano da principi superiori e trascendenti, sono veramente simboli di questi ultimi; ed è evidente che questo non infirma affatto la realtà propria che simili fenomeni posseggono, come tali, nel campo di esistenza al quale appartengono; ben al contrario, è proprio questo che dà fondamento a tale realtà, poiché al di fuori della loro dipendenza nei confronti dei principi, tutte le cose non sarebbero se non puro nulla. Come per tutto il resto, la stessa cosa accade dei fatti storici: essi pure si conformano necessariamente alla legge di corrispondenza della quale abbiamo or ora parlato, e in conseguenza di ciò traducono secondo il loro modo le realtà superiori, delle quali non sono in certo qual modo se non un’espressione umana; aggiungeremo che è questo a costituire ai nostri occhi tutto il loro interesse, da un punto di vista che – la cosa è evidente è totalmente diverso da quello in cui si pongono gli storici «profani» (3).
Tale carattere simbolico, quantunque comune a tutti i fatti storici, deve essere particolarmente evidente per quelli fra essi che costituiscono quella che può più propriamente esser detta la «storia sacra»; ed è a motivo di ciò che lo si ritrova in particolare, in maniera impressionante, in tutte le circostanze della vita di Cristo. Se si è ben capito quanto abbiamo detto finora, si comprenderà immediatamente che non solo questa non è una ragione per negare la realtà di tali avvenimenti e per considerarli puri e semplici «miti», ma che – al contrario – simili avvenimenti dovevano essere quelli che sono stati e non potevano essere diversi; d’altronde, come si potrebbe attribuire un carattere sacro a qualcosa che sia privo di ogni significato trascendente? In particolare, se Cristo è morto sulla croce, si può dire che sia a motivo del valore simbolico che la croce possiede di per sé e che le è sempre stato riconosciuto da tutte le tradizioni; ed è questa la ragione per cui, senza che si sminuisca minimamente il suo significato storico, si può considerare quest’ultimo come derivato dal suo stesso valore simbolico.
Un’altra conseguenza della legge di corrispondenza è la pluralità dei significati inclusi in ogni simbolo: si può ritenere, infatti, che qualsiasi cosa rappresenti non soltanto i principi metafisici, ma anche le realtà di ogni ordine che sono superiori al suo, realtà che, pur se ancora contingenti e dalle quali essa dipende inoltre più o meno direttamente, rivestono nei suoi confronti la parte di «cause seconde»; e l’effetto può sempre venire assunto quale simbolo della causa, qualunque sia il livello al quale ciò avviene, giacché tutto ciò che l’effetto è altro non è se non l’espressione di qualcosa che è inerente alla natura della sua stessa causa. Tali significati simbolici molteplici e gerarchicamente sovrapposti non si escludono affatto reciprocamente, non più di quanto escludano il senso letterale; sono anzi perfettamente concordanti tra di loro, perché in realtà esprimono le applicazioni di uno stesso principio a ordini diversi; ed in tal modo si completano e si corroborano, integrandosi nell’armonia della sintesi totale. È proprio questo, d’altra parte, che rende il simbolismo un linguaggio molto meno limitato del linguaggio comune, e fa di esso il solo linguaggio adatto per l’espressione e per la comunicazione di certe verità; è in ragione di ciò che esso apre possibilità di concezione veramente illimitate; è in ragione di ciò che esso costituisce il linguaggio iniziatico per eccellenza, il veicolo indispensabile di ogni insegnamento tradizionale.
La croce ha perciò, come tutti i simboli, molteplici significati; ma questi significati non è nostra intenzione svilupparli qui tutti in ugual maniera, e alcuni di essi li indicheremo in modo appena occasionale. Quello che ci prefiggiamo essenzialmente di esprimere, in effetti, è il significato metafisico, il quale è del resto il primo e il più importante di tutti, dal momento che è il significato propriamente principiale; tutti gli altri sono soltanto applicazioni contingenti e più o meno secondarie. Se ci accadrà di prendere in esame talune di questa applicazioni, in fondo sarà sempre e soltanto per ricollegarle alla sfera metafisica, giacché è questo che – ai nostri occhi – le rende valide e legittime, secondo la concezione, così completamente dimenticata dal mondo moderno, delle «scienze tradizionali».

Note
1 Oriente e Occidente, pp. 174-6.
2 Introduzione generale allo studio delle Dottrine indù, 3a parte, cap. III; L’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cap. I
3 «La stessa verità storica non è solida se non quando deriva dal Principio» (Tchoang-Tseu, cap. XXV).

I principi del calcolo infinitesimale

Premessa

Benché il presente studio possa sembrare, almeno a prima vista, di un carattere un po’ «speciale», ci è parso utile intraprenderlo al fine di precisare e spiegare più completamente certe nozioni alle quali ci è accaduto di fare riferimento nelle diverse occasioni in cui ci siamo serviti del simbolismo matematico, e questa ragione basterebbe insomma a giustificarlo senza dovervi insistere oltre. Dobbiamo dire tuttavia che ad essa si aggiungono altre ragioni secondarie, concernenti soprattutto quel che si potrebbe chiamare l’aspetto «storico» della questione; quest’ultimo, in effetti, non è del tutto privo d’interesse dal nostro punto di vista, nel senso che tutte le discussioni sollevate riguardo alla natura ed al valore del calcolo infinitesimale offrono un esempio stupefacente dell’assenza di principio che caratterizza le scienze profane, ossia le sole scienze che i moderni conoscano e persino concepiscano come possibili. Abbiamo spesso fatto notare come la maggior parte di tali scienze, anche nella misura in cui corrispondono ancora a qualche realtà, non rappresentino altro che residui snaturati di alcune delle antiche scienze tradizionali: è la parte inferiore di queste che, avendo cessato di essere posta in relazione coi principi, ed avendo perduto perciò il suo vero significato originario, ha finito per assumere uno sviluppo indipendente e per essere considerata una conoscenza sufficiente a se stessa, benché in verità il suo valore come conoscenza si trovi per ciò stesso ridotto quasi a nulla. Questo è evidente soprattutto nel caso delle scienze fisiche, ma, come abbiamo spiegato altrove (1), la stessa matematica moderna sotto tale aspetto non fa eccezione, se la si raffronta a quel che erano per gli antichi la scienza dei numeri e la geometria; e, quando parliamo qui degli antichi, occorre comprendervi anche l’antichità «classica», come il minimo studio delle teorie pitagoriche e platoniche basterebbe a mostrare, o almeno lo dovrebbe, se non si dovesse tener conto della straordinaria incomprensione di quanti pretendono attualmente di interpretarle; se tale incomprensione non fosse così completa, come si potrebbe sostenere, ad esempio, l’opinione di un’origine «empirica» delle scienze in questione, quando in realtà esse appaiono al contrario tanto più lontane da ogni «empirismo» quanto più si risale indietro nel tempo, come d’altronde avviene per ogni altra branca della conoscenza scientifica?
I matematici, nell’epoca moderna e più particolarmente ancora nell’epoca contemporanea, sembrano ormai giunti ad ignorare cosa sia veramente il numero; e con ciò non intendiamo parlare solamente del numero nel senso analogico e simbolico in cui l’intendevano i Pitagorici ed i Cabalisti, cosa fin troppo evidente, ma anche, per quanto possa apparire strano e quasi paradossale, del numero nella sua accezione semplicemente e propriamente quantitativa. Essi riducono, infatti, tutta la loro scienza al calcolo, secondo la concezione più ristretta possibile, intesa cioè come un insieme di procedimenti più o meno artificiali, valevoli unicamente per le applicazioni pratiche cui danno luogo: ciò significa in fondo che essi sostituiscono il numero con la cifra, e, del resto, questa confusione del numero con la cifra è così diffusa ai giorni nostri che la si potrebbe facilmente ritrovare ad ogni istante fin nelle espressioni del linguaggio corrente (2). Ora la cifra, a rigore, non è che l’abito del numero; non diciamo il suo corpo, poiché è piuttosto la forma geometrica che, sotto certi aspetti, può essere legittimamente considerata il vero corpo del numero, come mostrano le teorie degli antichi sui poligoni ed i poliedri, posti in diretto rapporto col simbolismo dei numeri; e ciò si accorda d’altronde col fatto che ogni «incorporazione» implica necessariamente una «spazializzazione». Non vogliamo dire tuttavia che le cifre stesse siano segni interamente arbitrari, la cui forma sarebbe stata determinata dalla fantasia di uno o più individui; deve valere per i caratteri numerici quel che vale per i caratteri alfabetici, dai quali d’altronde non si distinguono in certe lingue (3), potendosi applicare sia agli uni sia agli altri la nozione di un’origine geroglifica, cioè ideografica o simbolica, comune a tutte le scritture senza eccezione, per quanto dissimulata possa essere tale origine in certi casi per deformazioni o alterazioni più o meno recenti.
Quel che è certo, è che i matematici impiegano nelle loro notazioni simboli di cui non conoscono più il significato, e che sono come vestigia di tradizioni dimenticate; la cosa più grave è che non solo non si chiedono più quale possa essere questo significato, ma sembrano persino non volere che ve ne sia uno. In effetti, essi tendono sempre più a reputare ogni notazione una semplice «convenzione», intendendo con ciò un qualcosa che sia posto in maniera del tutto arbitraria, il che costituisce in fondo una vera impossibilità, poiché non si fa mai una convenzione qualsiasi senza avere qualche ragione di farla, e di fare precisamente quella anziché un’altra; solo a coloro che ignorano tale ragione la convenzione può apparire arbitraria, come a coloro che ignorano le cause di un avvenimento questo può apparire «fortuito»; è appunto quanto si verifica in tal caso, e si può vedere in ciò una delle estreme conseguenze dell’assenza di ogni principio, al punto da far perdere alla scienza o sedicente tale, poiché allora essa non merita veramente più questo nome sotto alcun aspetto ogni significato plausibile. D’altronde, proprio a causa della concezione attuale di una scienza esclusivamente quantitativa, detto «convenzionalismo» si estende poco a poco dalla matematica alle scienze fisiche, nelle loro teorie più recenti, le quali si allontanano così sempre più dalla realtà che pretendono spiegare; abbiamo sufficientemente insistito al riguardo in un’altra opera per poterci dispensare dal dirne ancora, tanto più che dobbiamo ora occuparci in modo particolare della sola matematica. Da questo punto di vista aggiungeremo soltanto che, quando si perde così completamente di vista il significato di una notazione, è fin troppo facile passare dall’uso legittimo e valido di essa ad un uso illegittimo, che non corrisponde più effettivamente a nulla e può persino risultare talvolta del tutto illogico; ciò può sembrare assai straordinario trattandosi di una scienza come la matematica, la quale dovrebbe avere con la logica legami particolarmente stretti, eppure è fin troppo vero che si possono rilevare molteplici illogicità nelle nozioni matematiche come sono considerate comunemente nella nostra epoca.
Uno degli esempi più notevoli di tali nozioni illogiche, e che dovremo esaminare qui in primo luogo, benché non sia il solo che incontreremo nel corso della nostra esposizione, è il preteso infinito matematico o quantitativo, fonte di quasi tutte le difficoltà sollevate nei confronti del calcolo infinitesimale – o, forse più esattamente, del metodo infinitesimale, essendovi in ciò qualcosa che, comunque la pensino i «convenzionalisti», oltrepassa la portata di un semplice «calcolo» nel senso ordinario del termine ; non vi sono eccezioni se non per le difficoltà derivanti da una concezione erronea o insufficiente della nozione di «limite», indispensabile per giustificare il rigore del metodo infinitesimale e fame altra cosa da un semplice metodo di approssimazione. D’altronde, come vedremo, occorre distinguere tra i casi in cui il cosiddetto infinito non esprime che una pura e semplice assurdità ossia un’idea contraddittoria in sé, come quella del «numero infinito» , ed i casi in cui è impiegato solamente in maniera abusiva nel senso di indefinito; non si dovrebbe però credere che la confusione tra infinito e indefinito si riduca per questo ad una semplice questione di parole, poiché riguarda in verità le idee stesse. È singolare come questa confusione, che sarebbe stato sufficiente dissipare per tagliar corto a tante discussioni, sia stata commessa dallo stesso Leibnitz, generalmente considerato l’inventore del calcolo infinitesimale, ma che noi chiameremmo piuttosto il suo «formulatore», poiché questo metodo corrisponde a certe realtà che, in quanto tali, hanno un’esistenza indipendente da colui che le concepisce e le esprime più o meno perfettamente; le realtà di ordine matematico, al pari di tutte le altre, non possono che essere scoperte, non inventate, mentre invece come accade fin troppo spesso in questo ambito – è proprio d’«invenzione» che si tratta, allorché ci si lascia condurre, tramite un «gioco» di notazione, nella pura fantasia; ma sarebbe sicuramente ben difficile far comprendere questa differenza a dei matematici i quali s’immaginano volentieri che tutta la loro scienza non sia e non debba essere altro che una «costruzione dello spirito umano», il che, se si dovesse dar loro credito, la ridurrebbe a ben poca cosa in verità! Comunque sia, Leibnitz non seppe mai spiegarsi chiaramente sui principi del suo calcolo, il che mostra come vi fosse in ciò qualcosa che lo oltrepassava e gli si imponeva in qualche modo senza che ne avesse coscienza; se egli se ne fosse reso conto, non avrebbe sicuramente ingaggiato al riguardo una disputa di «priorità» con Newton; del resto, dispute simili sono sempre del tutto vane, poiché le idee, nella misura in cui sono vere, non possono essere proprietà di nessuno, a dispetto dell’«individualismo» moderno, e non vi è che l’errore che possa essere attribuito propriamente agli individui umani. Non ci dilungheremo oltre su tale questione, che potrebbe condurci assai lontano dall’oggetto del nostro studio, per quanto non sia forse inutile, sotto certi aspetti, far comprendere come il ruolo dei cosiddetti «grandi uomini» sia spesso, in buona parte, un ruolo di «ricettori», benché essi stessi siano generalmente i primi ad illudersi circa la loro «originalità».
Per il momento, quel che ci riguarda più direttamente è questo: se dobbiamo constatare simili insufficienze in Leibnitz, insufficienze tanto più gravi in quanto vertono soprattutto sulle questioni di principio, che ne sarà degli altri filosofi e matematici moderni, ai quali è sicuramente molto superiore nonostante tutto? Tale superiorità gli deriva, da un lato, dallo studio delle dottrine scolastiche del medioevo, benché non le abbia sempre interamente comprese, e, dall’altro, da certi dati esoterici d’origine o d’ispirazione principalmente rosacrociana (4), dati evidentemente molto incompleti e anche frammentari, e che d’altronde gli accadde talvolta di applicare assai male, come vedremo da qualche esempio anche qui; è a queste due «fonti», per parlare come gli storici, che conviene riferire in definitiva pressoché tutto ciò che di realmente valido presentano le sue teorie, e che gli permise di reagire, sia pure imperfettamente, contro il cartesianesimo, il quale rappresentava allora, nel duplice dominio filosofico e scientifico, l’insieme delle tendenze e delle concezioni più specificamente moderne. Tale osservazione è sufficiente insomma a spiegare, in poche parole, tutto quel che fu Leibnitz, e, se lo si vuole comprendere, non si dovrebbero mai perdere di vista queste indicazioni generali, che, per tale ragione, abbiamo ritenuto opportuno formulare sin dall’inizio; ma è ora di abbandonare queste considerazioni preliminari per addentrarci nell’esame delle questioni che ci permetteranno di determinare il vero significato del calcolo infinitesimale.

Note
1. Si veda Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Gallimard, Paris, 1945; [trad. it.: Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Adelphi, Milano, 1982].
2. Lo stesso accade agli «pseudo-esoteristi», i quali conoscono così poco ciò di cui vogliono parlare che non mancano mai di commettere questa stessa confusione nelle elucubrazioni di fantasia che hanno la pretesa di sostituire alla scienza tradizionale dei numeri!
3 L’ebraico ed il greco rientrano in questo caso, come pure l’arabo prima che fosse introdotto l’uso delle cifre d’origine indiana, le quali in seguito, modificandosi in misura maggiore o minore, di là passarono nell’Europa del medioevo; si può notare a tale proposito che lo stesso vocabolo «cifra» non è altro che l’arabo çifr, benché quest’ultimo non sia in realtà che la designazione dello zero. È vero d’altra parte che in ebraico saphar significa «contare» o «numerare» quanto «scrivere», da cui sepher, «scrittura» o «libro» (in arabo sifr, che designa particolarmente un libro sacro), e sephar «numerazione» o «calcolo»; da quest’ultima parola proviene altresì la designazione delle Sephiroth della Cabala, che sono le «numerazioni» principiali assimilate agli attributi divini.
4. Il marchio innegabile di tale origine si trova nella figura ermetica posta da Leibnitz all’inizio del suo trattato De Arte combinatoria: è una rappresentazione della Rota Mundi nella quale, al centro della doppia croce degli elementi (fuoco e acqua, aia e terra) e delle qualità (caldo e freddo, secco e umido), la quinta essentia è simboleggiata da una rosa a cinque petali (corrispondenti all’etere considerato in sé e come principio degli altri quattro elementi); naturalmente questa «firma» è passata completamente inosservata a tutti i commentatori universitari!

Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

Premessa

Molte sono le difficoltà che in Occidente si oppongono a uno studio serio e approfondito delle dottrine orientali in genere, e in particolare delle dottrine indù; e gli ostacoli maggiori non sono forse quelli ascrivibili agli stessi orientali. Infatti uno studio di questo genere richiede evidentemente, come prima e più essenziale condizione, che si possegga la mentalità adatta per comprendere, veramente e profondamente, le dottrine in questione; ora, questa è un’attitudine che, escluse rarissime eccezioni, fa totalmente difetto agli occidentali. In sé necessaria, tale condizione potrebbe d’altra parte essere considerata sufficiente, perché, quando venga soddisfatta, gli orientali non provano la minima riluttanza a comunicare il loro pensiero nel modo più completo possibile.
Se dunque non esiste altro ostacolo reale oltre quello indicato, come si spiega il fatto che gli «orientalisti», vale a dire gli occidentali che si occupano delle cose d’Oriente, non l’abbiano mai superato? E non corriamo il rischio di essere accusati di esagerazione affermando che in effetti non lo hanno mai superato; basta constatare come essi non siano mai riusciti a produrre altro che semplici lavori di erudizione, pregevoli forse da un punto di vista specifico, ma privi di ogni interesse per la comprensione della sia pur minima idea vera. Il fatto è che non basta conoscere grammaticalmente una lingua, né essere capaci di tradurre parola per parola, anche correttamente, per penetrare lo spirito di una lingua e assimilare il pensiero di coloro che la parlano e la scrivono. Si potrebbe anzi andare oltre e dire che quanto più una traduzione è scrupolosamente letterale, tanto più rischia di essere in realtà inesatta e di deformare il pensiero, giacché non esiste, fra i termini di due lingue diverse, vera equivalenza, soprattutto se le due lingue sono molto lontane l’una dall’altra non soltanto filologicamente, ma anche per la diversità delle concezioni dei popoli che se ne servono; ed è proprio questo elemento che nessuna erudizione permetterà mai di penetrare. Occorre, a questo fine, ben altro che una vana «critica testuale» che si dilunga all’infinito su questioni di dettaglio, o metodi da grammatici e «letterati», o quel sedicente «metodo storico» che viene applicato a tutto indistintamente. È fuori di dubbio che dizionari e compilazioni hanno una loro utilità relativa, che nessuno pensa a contestare, e nemmeno si può dire che tutto questo lavoro sia completamente inutile, soprattutto se si tiene conto che coloro che lo forniscono sarebbero per lo più incapaci di produrre altro; ma purtroppo, non appena l’erudizione diventa una «specializzazione», si tende a considerarla fine a se stessa, invece che un semplice strumento, come normalmente dovrebbe essere. Questo sconfinamento dell’erudizione e dei suoi metodi particolari costituisce il vero pericolo, perché rischia di assorbire coloro che forse potrebbero dedicarsi a un altro genere di lavori, e perché l’abitudine a questi metodi rimpicciolisce l’orizzonte intellettuale di coloro che vi si sottopongono, imponendo un’irrimediabile deformazione.
Ma ancora non è tutto e nemmeno abbiamo considerato l’aspetto più grave del problema: i lavori di pura erudizione sono certamente, nella produzione degli orientalisti, la parte più ingombrante, ma non la più nefasta; e dicendo che non contengono niente oltre a questo, intendiamo niente che abbia un qualche valore, sia pure di portata limitata. Certuni, particolarmente in Germania, hanno voluto spingersi oltre, e, sempre valendosi degli stessi metodi, che in questo campo non possono più dare risultato alcuno, fare opera di interpretazione, aggiungendoci per di più tutto l’insieme d’idee preconcette che forma la loro mentalità propria, e col manifesto intento di far rientrare negli schemi abituali del pensiero europeo le concezioni con le quali venivano a contatto. Insomma l’errore capitale di questi orientalisti, prescindendo dalla questione di metodo, è di vedere tutto nella prospettiva occidentale e attraverso la propria mentalità, mentre la prima condizione per poter interpretare correttamente qualsiasi dottrina è, naturalmente, di fare uno sforzo per assimilarla e porsi, nei limiti del possibile, nella prospettiva di coloro che l’hanno concepita. Diciamo nei limiti del possibile perché, se non tutti possono riuscirci in modo uguale, tutti possono per lo meno tentare; ora, lungi da ciò, l’esclusivismo degli orientalisti di cui stiamo parlando e il loro schematismo sono invece tali da spingerli, per un’incredibile aberrazione, a ritenersi capaci di comprendere le dottrine orientali meglio degli orientali stessi; pretesa che in fondo sarebbe soltanto ridicola se non si accompagnasse a una ben ferma volontà di «monopolizzare» in qualche modo questo genere di studi. E di fatto in Europa, tranne questi «specialisti», se ne occupa quasi solo una certa categoria di sognatori stravaganti e di intrepidi ciarlatani che potremmo considerare un’entità trascurabile, se non esercitassero a loro volta un’influenza deplorevole sotto diversi aspetti, come del resto spiegheremo a suo luogo in modo più preciso.
Per tenerci qui a quel che riguarda gli orientalisti che possiamo dire «ufficiali», segnaleremo ancora, a titolo di osservazione preliminare, un abuso a cui dà luogo più frequentemente l’impiego del «metodo storico», al quale abbiamo già accennato: è l’errore che consiste nello studiare le civiltà orientali come fossero civiltà scomparse da molto tempo. In quest’ultimo caso è evidente che in mancanza di meglio ci si deve per forza accontentare di ricostruzioni approssimative, senza mai essere sicuri di una perfetta concordanza con quanto è realmente esistito in passato, non essendoci modo di procedere a verifiche dirette. Ma si dimentica che le civiltà orientali, almeno quelle che ci interessano attualmente, si sono perpetuate fino a noi senza interruzione e hanno ancora dei rappresentanti autorizzati, il cui parere vale, per comprenderle, ben più di ogni possibile erudizione; sennonché, perché si pensi a consultarli, non bisognerebbe partire dal singolare principio che ci si orienta meglio di loro sul vero senso delle loro stesse concezioni.
D’altronde bisogna anche dire che gli orientali, i quali hanno, e a ragion veduta, un’opinione nient’affatto alta dell’intellettualità europea, si preoccupano ben poco di quel che gli occidentali possono, in modo generale, pensare o non pensare di loro; e neppure cercano di farli ricredere, anzi, attenendosi a una cortesia un po’ sdegnosa, si chiudono in un silenzio che la vanità occidentale scambia facilmente per approvazione. Il fatto è che il «proselitismo» è totalmente sconosciuto in Oriente, dove sarebbe d’altronde senza scopo e verrebbe considerato una pura e semplice prova di ignoranza e incomprensione; quanto diremo più oltre varrà a mostrarne le ragioni. Le eccezioni a questo silenzio, che viene da taluno rimproverato agli orientali e che pure è così legittimo, non possono essere che rare, a favore di qualche individuo isolato che presenti le qualifiche richieste e le attitudini intellettuali necessarie. Quanto a coloro che escono dal riserbo, fuori di questo caso ben preciso, se ne può dire una sola cosa: in generale rappresentano elementi di scarso interesse, e per una ragione o per l’altra espongono quasi solo dottrine deformate, col pretesto di adattarle all’Occidente; anche di questi avremo occasione di dire qualche parola. Quel che per il momento vogliamo far comprendere, e che già all’inizio abbiamo indicato, è che la mentalità occidentale è la sola responsabile di questa situazione che rende assai difficile anche il compito di chi, trovatosi in condizioni eccezionali ed essendo riuscito ad assimilare certe idee, voglia esprimerle nel modo più intelligibile, senza con ciò deformarle: egli deve limitarsi a esporre quanto ha compreso, nella misura in cui ciò può esser fatto, astenendosi accuratamente da ogni intento di «volgarizzazione» e senza la minima velleità di convincere chicchessia.
Ci pare di avere detto abbastanza per definire nettamente le nostre intenzioni: noi non vogliamo fare qui opera di erudizione, e il punto di vista da cui intendiamo porci è molto più profondo. Siccome la verità non è per noi un fatto storico, ci importerebbe in fondo poco determinare esattamente la provenienza di questa o quell’idea, la quale in definitiva ci interessa solo perché, avendola compresa, la sappiamo vera; ma certe indicazioni sul pensiero orientale possono offrire materia di riflessione a qualcuno, e questo semplice risultato avrebbe di per sé un’importanza insospettata. Del resto, anche se questo scopo non potesse essere raggiunto, ci sarebbe ancora una ragione valida per intraprendere uno studio di questo genere: significherebbe riconoscere in qualche modo tutto quanto dobbiamo intellettualmente agli orientali, e di cui gli occidentali non ci hanno mai offerto il minimo equivalente, anche parziale o incompleto.
Per cominciare, indicheremo dunque il più chiaramente possibile, e dopo qualche considerazione preliminare indispensabile, le differenze essenziali e fondamentali che esistono fra i modi generali del pensiero orientale e quelli del pensiero occidentale. Insisteremo poi più specificamente sulle dottrine indù, in quanto presentano caratteristiche particolari che le distinguono dalle altre dottrine orientali, benché tutte possiedano caratteristiche comuni sufficienti a giustificare, nell’insieme, l’opposizione generale di Oriente e Occidente. Infine, a proposito di queste dottrine indù, segnaleremo l’insufficienza delle interpretazioni che hanno corso in Occidente; dovremmo anzi, per talune di esse, parlare di vera e propria assurdità. A conclusione di questo studio indicheremo, con tutte le cautele necessarie, le condizioni per un avvicinamento intellettuale tra l’Oriente e l’Occidente, condizioni che, come facilmente si può prevedere, sono ben lungi dall’essere attualmente soddisfatte da parte occidentale; è quindi solo una possibilità quella che vogliamo indicare, senza crederla in alcun modo suscettibile di realizzazione immediata o anche semplicemente prossima.

La Grande Triade

Premessa

Molti certamente capiranno, dal solo titolo di questo studio, che esso si riferisce soprattutto al simbolismo della tradizione estremo-orientale, perché è abbastanza comunemente noto il ruolo che in quest’ultima svolge il ternario costituito dai termini «Cielo, Terra, Uomo» (Tien-ti-jen); questo ternario si è soliti designarlo più particolarmente con il nome di «Triade», anche se non sempre se ne afferrano con esattezza il senso e la portata, che nella presente opera ci proponiamo appunto di spiegare, segnalando altresì le corrispondenze riscontrabili a questo proposito in altre forme tradizionali; a ciò abbiamo già dedicato un capitolo di un altro studio, (1) ma l’argomento merita di essere trattato con maggiore ampiezza. È anche noto che in Cina esiste una «società segreta», così almeno si suole chiamarla, alla quale in Occidente è stato dato questo nome stesso di «Triade»; e poiché non è nostra intenzione trattarne in modo specifico, sarà opportuno dire subito qualche parola al riguardo, così da non dovervi poi tornare sopra nel corso della nostra esposizione.(2)
Il vero nome di questa organizzazione è Tien-ti-houei, che potremmo tradurre con «Società del Cielo e della Terra», fatta ogni debita riserva sull’uso del termine «società» per i motivi da noi addotti in altra sede, (3) dato che, pur appartenendo a un ordine relativamente esterno, essa è comunque lontanissima dal presentare tutti i caratteri specifici che inevitabilmente richiama questa parola nel mondo occidentale moderno. Si noterà come in tale denominazione figurino soltanto i primi due termini della Triade tradizionale: questo perché, in realtà, è l’organizzazione stessa (houei), con i suoi membri presi sia collettivamente che individualmente, a fare da terzo termine, come si capirà meglio da alcune considerazioni che dovremo svolgere (4). Spesso si dice che questa organizzazione è anche conosciuta con parecchie altre denominazioni e che tra queste ve ne sono alcune in cui è menzionata espressamente l’idea del ternario; (5) ma, a dire il vero, in ciò vi è un’inesattezza: propriamente, queste denominazioni si applicano soltanto a rami particolari o a «emanazioni» temporanee di tale organizzazione, che appaiono in questo o in quel momento storico per poi scomparire quando abbiano portato a termine il compito specifico cui erano destinati.(6).
Altrove abbiamo già indicato quale sia la vera natura di tutte le organizzazioni di questo genere:(7) dobbiamo sempre considerarle, in ultima analisi, come emanazioni della gerarchia taoista, che le ha suscitate e le dirige invisibilmente, ai fini di una azione più o meno esterna in cui essa non può intervenire direttamente in virtù del principio del «non agire» (wou-wei), in base al quale la sua funzione è essenzialmente quella del «motore immobile», del centro che governa il movimento di tutte le cose senza parteciparvi. Questo, naturalmente, la maggioranza dei sinologi lo ignora, perché i loro studi, dato il punto di vista speciale dal quale partono, non possono certo renderli edotti del fatto che in Estremo Oriente tutto ciò che, in un qualunque grado, appartiene a un ordine esoterico o iniziatico rientra necessariamente nel Taoismo; ma è comunque abbastanza strano che anche coloro i quali hanno individuato nelle «società segrete» un qualche influsso taoista non siano stati in grado di andare più in là e non ne abbiano tratto alcuna conseguenza importante. Costoro, riscontrando in pari tempo la presenza di altri elementi, e in particolare di elementi buddistici, si sono affrettati a pronunciare la parola «sincretismo», senza accorgersi che essa designa qualcosa di assolutamente contrario, da un lato, allo spirito eminentemente «sintetico» della razza cinese e, dall’altro, allo spirito iniziatico da cui evidentemente procedono le organizzazioni di cui stiamo parlando, anche se, sotto questo profilo, si tratta soltanto di forme abbastanza lontane dal centro.(8) Certo non vogliamo dire che tutti i membri di queste organizzazioni relativamente esterne debbano essere coscienti dell’unità fondamentale di tutte le tradizioni; ma coloro che stanno dietro a esse e le ispirano, nella loro qualità di «uomini veri» (tchenn-jen), questa coscienza la possiedono necessariamente, e ciò consente loro di introdurvi, quando le circostanze lo rendano opportuno o conveniente, elementi formali propri a tradizioni diverse. (9)
A questo proposito, dobbiamo insistere un poco sull’utilizzazione di elementi di provenienza buddistica, non tanto perché sono indubbiamente i più numerosi (e ciò si spiega facilmente data la grande diffusione del Buddismo in Cina e in tutto l’Estremo Oriente), quanto invece perché tale utilizzazione ha una ragione più profonda che la rende particolarmente interessante e senza la quale, in verità, forse non sarebbe avvenuta una simile diffusione del Buddismo. Non sarebbe difficile trovare molteplici esempi di tale utilizzazione, ma, accanto a quelli che di per sé hanno solo un’importanza, diremmo, secondaria e che valgono appunto soprattutto per la loro quantità, per attirare e trattenere l’attenzione dell’osservatore esterno, e per sviarla in questo modo dalle cose che hanno un carattere più essenziale,(10) ce n’è almeno uno, chiarissimo, che non verte su semplici dettagli: è l’uso del simbolo del «Loto bianco» nella denominazione dell’altra organizzazione estremo-orientale che si situa sullo stesso piano della Tien-ti-houei.(11) In effetti Pe-lien-che o Pe-lien-tsong, nome di una scuola buddistica, e Pe-lien-kiao o Pe-lien-houei, nome dell’organizzazione di cui stiamo parlando, designano due cose completamente diverse; ma, nell’adozione di tale nome da parte di questa organizzazione emanata dal Taoismo, c’è una specie di equivoco intenzionale, come in certi riti dall’aspetto buddistico o anche nelle «leggende» in cui quasi costantemente hanno una parte più o meno importante dei monaci buddisti. Da un esempio come questo risulta abbastanza chiaro come il Buddismo possa servire da «copertura» al Taoismo, e come in tale modo esso abbia potuto evitare a quest’ultimo di esteriorizzarsi più di quanto non sarebbe stato lecito a una dottrina che, per definizione, deve sempre essere riservata a una ristretta élite. Per questo al Taoismo è capitato di favorire la diffusione del Buddismo in Cina, senza che sia il caso di invocare affinità originarie, che esistono solo nella fantasia di alcuni orientalisti; e, del resto, ha potuto farlo tanto meglio in quanto, dopo che le due parti esoterica ed essoterica della tradizione estremo-orientale erano state costituite in due rami dottrinari così profondamente distinti come lo sono il Taoismo e il Confucianesimo, era facile trovar posto fra l’uno e l’altro a qualcosa che rientrasse in un ordine per così dire intermedio. È il caso di aggiungere che, proprio per questo, il Buddismo cinese è stato a sua volta influenzato in misura non trascurabile dal Taoismo, come mostra l’adozione di certi metodi di ispirazione palesemente taoistica da parte di alcune sue scuole, in particolare quella Tchan,(12) e anche l’assimilazione di certi simboli di provenienza non meno essenzialmente taoistica, come per esempio quello di Kouan-yin; ed è quasi superfluo far notare come in questo modo esso diventasse molto più idoneo ancora a svolgere il ruolo che abbiamo appena indicato.
Vi sono anche altri elementi di cui i più decisi fautori della teoria dei «prestiti» non potrebbero certo pensare a spiegare la presenza con il «sincretismo», ma che, data la mancanza di qualsiasi conoscenza iniziatica in chi ha voluto studiare le «società segrete» cinesi, sono rimasti per loro quasi un enigma insolubile: alludiamo a quegli elementi attraverso i quali si instaurano somiglianze talora sorprendenti fra queste organizzazioni e quelle analoghe che appartengono ad altre forme tradizionali. Taluni sono arrivati a ipotizzare a questo proposito, in particolare, un’origine comune della «Triade» e della Massoneria, senza peraltro poter sostenere l’ipotesi con ragioni sufficientemente solide, e la cosa non ha sicuramente nulla di cui ci si debba stupire; eppure non è un’idea da respingere in modo assoluto, a patto però di intenderla in un senso completamente diverso dal loro, a patto cioè di riferirla non tanto a una più o meno remota origine storica, ma solo all’identità dei principi che presiedono a qualsiasi iniziazione, orientale o occidentale che sia; per averne la vera spiegazione, si dovrebbe risalire molto più indietro della storia, fino alla stessa Tradizione primordiale. (13) Riguardo a certe somiglianze che sembrano vertere su punti più specifici, diremo soltanto che cose come l’uso del simbolismo dei numeri, per esempio, o anche quello del simbolismo «costruttivo», non sono in alcun modo esclusive di questa o quella forma iniziatica, ma rientrano invece nel novero di quelle che si ritrovano dovunque con semplici differenze di adattamento, perché si riferiscono a scienze o arti che esistono in tutte le tradizioni, e con lo stesso carattere «sacro»; dunque esse appartengono realmente all’ambito dell’iniziazione in generale e, di conseguenza, per quanto riguarda l’Estremo Oriente, esse appartengono in proprio all’ambito del Taoismo: se gli elementi avventizi, buddistici o altro, sono piuttosto una «maschera», questi, invece, fanno davvero parte dell’essenziale.
Quando parliamo del Taoismo e diciamo che questa o quell’altra cosa dipende da esso (ed è il caso della maggior parte delle considerazioni che dovremo esporre nel presente studio), ci resta ancora da precisare che tutto ciò va inteso in riferimento allo stato attuale della tradizione estremo-orientale, perché menti troppo inclini a vedere tutto «storicamente» potrebbero essere tentate di concludere che si tratti di concezioni non riscontrabili anteriormente alla formazione di quello che propriamente si chiama Taoismo, mentre è vero esattamente l’opposto, dato che esse sono costantemente presenti in tutti i documenti a noi noti della tradizione cinese a partire dall’epoca più remota cui sia possibile risalire, e cioè a partire dall’epoca di Fo-hi. Il fatto è che in realtà il Taoismo non ha assolutamente «innovato» nell’ambito esoterico e iniziatico, come non ha innovato il Confucianesimo nell’ambito essoterico e sociale; sia l’uno che l’altro, ciascuno nel proprio ordine, sono soltanto «riadattamenti» resi necessari da condizioni in seguito alle quali la tradizione, nella sua forma originaria, non era più compresa in modo integrale.14 Dopodiché, una parte della tradizione anteriore rientrava nel Taoismo e una parte nel Confucianesimo, e questo stato di cose si è conservato fino ai nostri giorni; riferire certe concezioni al Taoismo e certe altre al Confucianesimo non significa assolutamente attribuirle a qualcosa di più o meno paragonabile a quelli che gli Occidentali chiamerebbero dei «sistemi», e in fondo non vuol dire altro se non che esse appartengono rispettivamente alla parte esoterica e alla parte essoterica della tradizione estremo-orientale.
Non riparleremo più in modo specifico della Tien-ti-houei, salvo quando ci sarà bisogno di precisare alcuni punti particolari, perché non rientra nei nostri propositi; ma quanto diremo nel corso del nostro studio, oltre alla sua portata molto più generale, mostrerà implicitamente su quali principi poggi questa organizzazione in virtù della sua stessa denominazione, e consentirà di capire come, malgrado la sua esteriorità, essa abbia un carattere realmente iniziatico, tale da assicurare ai suoi membri una partecipazione almeno virtuale alla tradizione taoista. Infatti il ruolo assegnato all’uomo come terzo termine della Triade è, a un certo livello, propriamente quello dell’«uomo vero» (tchenn-jen) e, a un altro, quello dell’«uomo trascendente» (cheun-jen), così indicando i rispettivi scopi dei «piccoli misteri» e dei «grandi misteri», ossia gli scopi di qualsiasi iniziazione. Probabilmente questa organizzazione, in se stessa, non è di quelle che permettono di giungervi effettivamente; ma almeno essa può prepararvi, per quanto alla lontana, quelli che sono «qualificati», e in tal modo costituisce per loro uno dei «vestiboli» che possono dare accesso alla gerarchia taoista, i cui gradi sono esattamente quelli della realizzazione iniziatica.

Note
1. Le Symbolisme de la Croix, cap. XXVIII.
2. Qualche dettaglio sull’organizzazione di cui stiamo parlando, sul suo rituale e sui suoi simboli (in particolare sui simboli numerici di cui essa fa uso) si può trovare nell’opera del ten. col. B. Favre su Les Sociétés secrètes en Chine; questa opera è scritta da un punto di vista profano, ma l’autore ha perlomeno intravisto alcune cose che di solito sfuggono ai sinologi e, se è lontano dall’aver risolto tutti i problemi sollevati in proposito, ha comunque il merito di averli posti in modo abbastanza chiaro. Si veda d’altra parte anche Matgioi, La Voie rationnelle, cap. VII.
3. Aperçus sur l’Initiation, cap. XII.
4. Si noti che jen significa sia «uomo» che «umanità»; inoltre, dal punto di vista delle applicazioni all’ordine sociale, è la «solidarietà» della razza, la cui realizzazione pratica è una delle finalità contingenti che si propone l’organizzazione di cui stiamo parlando.
5. In particolare i «Tre Fiumi» (San-ho) e i «Tre Punti» (San-tien); l’uso di quest’ultimo vocabolo è evidentemente uno dei motivi per cui taluni sono stati indotti a cercare dei rapporti fra la «Triade» e le organizzazioni iniziatiche occidentali come la Massoneria e il Compagnonaggio.
6. Questa essenziale distinzione non dovrà mai essere dimenticata da coloro che vorranno consultare il già citato libro del ten. col. B. Favre, dove purtroppo essa è trascurata, talché l’autore sembra considerare tutte queste denominazioni come semplici equivalenti; di fatto, la maggior parte dei dettagli che egli fornisce a proposito della «Triade»riguardano realmente solo una delle sue emanazioni, la Hong-houei; in particolare, soltanto quest’ultima, e non certo la Tien-ti-houei, può essere stata fondata al più presto verso la fine del Seicento o l’inizio del Settecento, cioè a una data tutto sommato assai recente.
7. Cfr. Aperçus sur l’Initiation, capp. XII e XLVI.
8. Cfr. Aperçus sur l’Initiation, cap. VI.
9. Comprese talvolta anche quelle che sono più estranee all’Estremo Oriente, per esempio il Cristianesimo, come si può vedere nel caso dell’associazione della «Grande Pace» o Tai-ping, una delle emanazioni recenti della Pe-lien-houei che menzioneremo tra breve.
10. L’idea del presunto «sincretismo» delle «società segrete» cinesi è un caso particolare del risultato ottenuto con questo mezzo, quando l’osservatore esterno sia un Occidentale moderno.
11. Diciamo «l’altra» perché ce ne sono effettivamente soltanto due: tutte le associazioni note all’esterno in realtà non sono altro che rami o emanazioni dell’una o dell’altra.
12. Trascrizione cinese della parola sanscrita Dhyâna, «contemplazione»; questa scuola è più nota con il nome di Zen, forma giapponese della stessa parola.
13. È vero che l’iniziazione in quanto tale è diventata necessaria solo a partire da un certo periodo del ciclo della umanità terrestre, in seguito alla degenerazione spirituale di quest’ultima; ma tutto ciò che essa comporta costituiva in precedenza la parte superiore della Tradizione primordiale, allo stesso modo in cui, analogicamente e con riferimento a un ciclo molto più limitato nel tempo e nello spazio, tutto ciò che è implicito nel Taoismo costituiva inizialmente la parte superiore dell’unica tradizione che esisteva in Estremo Oriente prima della separazione dei suoi due aspetti esoterico e essoterico.14. È noto come la costituzione di questi due rami distinti della tradizione estremo-orientale risalga al VI secolo a.C., epoca in cui vissero Lao-tseu e Confucio.

Errore dello spiritismo

Prefazione

Affrontando la questione dello spiritismo ci preme dire subito, nel modo più chiaro possibile, con quale spirito intendiamo trattarla. Molte opere sono già state dedicate a questo argomento, e negli ultimi tempi sono diventate più numerose che mai; tuttavia noi non pensiamo che sia già stato detto tutto quanto c’era da dire, né che il presente lavoro rischi di essere il doppione di qualche altro. Non ci proponiamo, d’altra parte, di fare un’esposizione completa dell’argomento in tutti i suoi aspetti: ciò ci obbligherebbe a ripetere troppe cose che si possono facilmente trovare in altre opere, e sarebbe di conseguenza un lavoro tanto enorme quanto poco utile. Riteniamo preferibile limitarci ai punti che sono stati trattati finora nel modo più insufficiente: per questo motivo ci dedicheremo innanzi tutto a dissipare le confusioni e gli equivoci che in quest’ordine di idee abbiamo avuto frequentemente occasione di constatare e mostreremo poi, soprattutto, gli errori che sono alla base della dottrina spiritistica, se pure sia ammissibile chiamarla dottrina.
Pensiamo che sarebbe difficile, e comunque poco interessante, considerare la questione nel suo insieme dal punto dì vista storico; in effetti, si può tracciare la storia di una setta ben definita, che formi un tutto chiaramente organizzato, o possieda almeno una certa coesione; ma non così si presenta lo spiritismo. É necessario far notare che gli spiritisti sono stati, fin dall’origine, divisi in parecchie scuole le quali si sono ancora moltiplicate in seguito e hanno sempre costituito innumerevoli gruppi indipendenti, talvolta rivali fra loro. Se anche fosse possibile redigere un elenco completo di tutte queste scuole e di tutti questi gruppi, la fastidiosa monotonia di una simile enumerazione non sarebbe certo compensata dal risultato che se ne potrebbe ottenere. Resta poi ancora da aggiungere che, per potersi dire spiritisti, non è affatto indispensabile appartenere a una qualsivoglia associazione: è sufficiente ammettere certe teorie, che comunemente sono accompagnate da pratiche corrispondenti; molte persone possono fare dello spiritismo isolatamente, o in piccoli gruppi, senza ricollegarsi a nessuna organizzazione, e questa è una situazione che lo storico non può verificare. In ciò lo spiritismo si presenta in modo del tutto diverso dal teosofismo e dalla maggior parte delle scuole occultistiche; questa caratteristica è lungi dall’essere la più importante fra tutte quelle che lo contraddistinguono, ma è la conseguenza di certe altre differenze meno esteriori, che avremo occasione di spiegare. Noi confidiamo che quanto detto sia sufficiente a far comprendere il motivo per cui non introdurremo in questo studio considerazioni storiche se non nella misura in cui esse ci sembreranno capaci di chiarire la nostra esposizione, e senza farne oggetto di una parte speciale.
Un altro punto che non intendiamo trattare in modo completo è l’esame dei fenomeni che gli spiritisti invocano in appoggio alle loro teorie e che altri, pur ammettendone ugualmente la realtà, interpretano però in maniera totalmente diversa. Parleremo di ciò in modo sufficiente a indicare quel che ne pensiamo, ma la descrizione più o meno particolareggiata di tali fenomeni è stata così spesso fornita dagli sperimentatori stessi, che sarebbe del tutto superfluo ritornarci sopra; del resto, non è questo che ci interessa particolarmente, e preferiamo, al riguardo, segnalare la possibilità di certe spiegazioni che gli sperimentatori di cui dicevamo, spiritisti o no, certamente neanche sospettano. Senza dubbio è opportuno notare che, nello spiritismo, le teorie non sono mai separate dalla sperimentazione, né noi intendiamo considerarle completamente separate nella nostra esposizione; noi però sosteniamo che i fenomeni forniscono soltanto una base affatto illusoria alle teorie spiritistiche, e che, in assenza di queste ultime, non ci si troverebbe più di fronte allo spiritismo. D’altra parte, ciò non ci impedisce di ammettere che, se lo spiritismo fosse soltanto teorico, sarebbe molto meno pericoloso di quanto è e non eserciterebbe la stessa attrazione su tanta gente; su tale pericolo tanto più insisteremo in quanto esso costituisce il più urgente dei motivi che ci hanno spinto a scrivere il presente libro.
Abbiamo già detto altrove come sia nefasta, a nostro giudizio, la diffusione di quelle teorie che sono comparse meno di un secolo fa, e che si possono definire in modo generale con il nome di «neospiritualismo». Certamente vi sono, nella nostra epoca, molte altre «controverità» che è bene ugualmente combattere; le prime, però, hanno un carattere del tutto speciale, che le rende forse più nocive e in ogni caso in modo diverso rispetto a quelle che si presentano sotto una forma semplicemente filosofica e scientifica. Tutte queste cose, in effetti, appartengono più o meno al campo della «pseudoreligione»; l’espressione, che è stata da noi attribuita al teosofismo, potrebbe essere ugualmente riferita allo spiritismo. Sebbene quest’ultimo avanzi spesso pretese scientifiche a causa dell’aspetto sperimentale nel quale crede di trovare non solamente il fondamento, ma la fonte stessa della sua dottrina, esso non è in definitiva che una deviazione dello spirito religioso, conformemente alla mentalità «scientistica» posseduta da molti nostri contemporanei. Inoltre, fra tutte le dottrine «neospiritualistiche», lo spiritismo è certamente la più diffusa e la più popolare, e ciò si comprende facilmente, poiché è la forma più «semplicistica», diremmo volentieri la più grossolana, di tali dottrine: esso è alla portata di tutte le intelligenze, anche le più mediocri, e i fenomeni su cui si appoggia, o almeno i più comuni di essi, possono per giunta essere facilmente ottenuti da tutti. É quindi lo spiritismo a fare il più gran numero di vittime, e le devastazioni da esso causate si sono ulteriormente accresciute in questi ultimi anni in proporzioni inattese, a causa dello scompiglio che i recenti avvenimenti hanno provocato nelle coscienze. Quando parliamo di devastazioni e di vittime, non si tratta affatto di semplici metafore; le cose di questo genere, e lo spiritismo più di tutte le altre, hanno come risultato di squilibrare e rovinare in modo irrimediabile una quantità di sventurati che, se non le avessero incontrate sulla loro strada, avrebbero potuto continuare a condurre una vita normale. Si tratta di un pericolo che non dovrebbe essere ritenuto trascurabile e che, soprattutto nelle attuali circostanze, è particolarmente necessario e opportuno denunciare con insistenza. Queste considerazioni rafforzano in noi la preoccupazione, di ordine più generale, di difendere i diritti della verità contro tutte le forme di errore.
Dobbiamo aggiungere che non è nostra intenzione limitarci a una critica puramente negativa; occorre che la critica, giustificata dalle ragioni che abbiamo detto precedentemente, sia per noi, nello stesso tempo, un’occasione per esporre certe verità. E nonostante il fatto che su parecchi punti saremo costretti a limitarci a indicazioni piuttosto sommarie per restare nei confini che intendiamo imporci, riteniamo ugualmente di poter fare intravedere molte questioni non conosciute, capaci di aprire nuove vie di ricerca a coloro che saranno in grado di valutarne la portata. D’altra parte ci preme avvertire che il nostro punto di vista è molto differente, sotto molteplici aspetti, da quello della maggior parte degli autori che hanno trattato dello spiritismo, tanto per combatterlo quanto per difenderlo; noi ci riferiamo sempre, innanzi tutto, al dati della metafisica pura, quali le dottrine orientali ci hanno fatto conoscere; riteniamo infatti che certi errori soltanto così si possano confutare pienamente, e non ponendosi sul loro stesso terreno. Sappiamo sin troppo bene, poi, che dal punto di vista filosofico, così come dal punto di vista scientifico, si può discutere indefinitamente senza con ciò avanzare di un passo, e che prestarsi a simili controversie equivale spesso a fare il gioco dell’avversario, per quanto poca sia la sua abilità nel far deviare la discussione. Siamo pertanto convinti più di chiunque altro della necessità di una direzione dottrinale dalla quale non si deve mai deviare, e che, sola, permette di accostarsi impunemente a certe cose. D’altra parte, poiché non vogliamo chiudere la porta ad alcuna possibilità e schierarci se non contro ciò che sappiamo essere falso, tale direzione può essere per noi soltanto di ordine metafisico, nel senso in cui, come abbiamo altrove spiegato, il termine va compreso. Naturalmente, uno studio come questo non deve essere considerato propriamente metafisico in tutte le sue parti; ma non temiamo di affermare che vi è, nella sua ispirazione, più vera metafisica di quanta ve ne sia in tutto ciò a cui i filosofi attribuiscono indebitamente tale nome. Quest’ultima affermazione non deve spaventare nessuno: la vera metafisica, a cui facevamo riferimento, non ha nulla in comune con le astruse sottigliezze della filosofia né con tutte le confusioni che questa provoca e alimenta a profusione; inoltre il presente studio, nel suo insieme, non avrà nulla del rigore di una esposizione esclusivamente dottrinale. Ciò che intendiamo dire è che noi siamo costantemente guidati da principi i quali, per chiunque li abbia compresi, sono di una certezza assoluta e senza i quali si rischia seriamente di perdersi nei tenebrosi labirinti del «mondo inferiore», cosa di cui troppi esploratori temerari, nonostante i loro titoli scientifici e filosofici, ci hanno fornito il triste esempio.
Tutto ciò non significa affatto che noi disprezziamo gli sforzi di coloro che si sono situati in punti di vista differenti dal nostro; al contrario, noi riteniamo che tutti i punti di vista, purché siano legittimi e validi, non possano che armonizzarsi e completarsi. Ci sono però distinzioni da fare e una gerarchia da osservare: un punto di vista particolare vale soltanto entro un certo ambito, e bisogna fare molta attenzione ai limiti oltre i quali cessa di essere applicabile; è quanto dimenticano troppo spesso gli specialisti delle scienze sperimentali. D’altro canto, coloro che si pongono dal punto di vista religioso hanno sì l’inestimabile vantaggio di una direzione dottrinale simile a quella di cui abbiamo parlato, ma tale direzione, a causa della forma da essa rivestita, non è universalmente accettabile, anche se basta a impedire che essi si perdano pur non fornendo soluzioni adeguate a tutte le questioni. Comunque sia, di fronte alle attuali circostanze, siamo convinti che non si farà mai troppo per opporsi a certe perniciose attività, e che ogni sforzo compiuto in tal senso, a patto che sia ben diretto, avrà la sua utilità, potendo forse essere più idoneo di altri ad avere effetti su questo o quel punto determinato; e, per parlare un linguaggio che alcuni comprenderanno, aggiungeremo che non si diffonderà mai troppa luce per dissipare tutte le emanazioni provenienti dal «Satellite oscuro».